Ha rivoluzionato il mondo della performance art perché ogni sua opera è un evento da raccontare, un viaggio nell’arte e nel profondo di se stessi. È Marina Abramović che della sua stessa arte dice: “La cosa più difficile è fare qualcosa di molto vicino al nulla”. Ma quello che fa la Abramović è sempre molto vicino alla parte più oscura di ognuno di noi, al nostro intimo inconfessabile. È un’arte concepita per fare rumore, per smuovere, per scandalizzare, sempre in bilico tra la vita e la morte, tra ciò che è tangibile e ciò che è etereo. Così come quella che, dal prossimo 5 settembre, la riporterà a Napoli dopo 46 anni dalla storica performance Rhytm 0 alla Galleria Studio Morra, regalando al nostro Paese un’esperienza differente ma ugualmente densa di emozione.
La madre della performance art torna dunque nel capoluogo campano con “Marina Abramović / Estasi” la mostra promossa da VanitasClub e curata da Casa Testori che è un omaggio dell’artista a Santa Teresa d’Avila ospitata all’interno di Castel dell’Ovo, il castello più antico di Napoli, considerato anche uno dei simboli della città proprio per la sua posizione privilegiata. Allestita all’interno della Sala delle Carceri, anticamente adibita a galera del castello, “The Kitchen. Homage to Saint Therese” è un ciclo di tre video in cui l’artista serba naturalizzata statunitense si relaziona con la figura della Santa. In un metaforico abbraccio estatico della città, la Abramović dà vita a un progetto non solo di portata internazionale ma che ha anche una straordinaria valenza emozionale perché mette idealmente a confronto, a distanza di circa cinque secoli, due donne di diversa ma intensa umanità regalando ai visitatori un’esperienza quasi mistica.
“L’Italia ha dimostrato grande coraggio e un profondo senso di comunità e umanità. Italia ti amo e il mio cuore è con te”, ha dichiarato l’artista che ha tratto ispirazione dai Diari della Santa dove centrale è il ruolo della cucina, elemento che accomuna le due donne. Nei Diari infatti viene narrato come la santa spagnola avesse visioni ed estasi mistiche proprio in questo luogo della casa mentre era impegnata nella preparazione dei piatti. Attraverso i tre video proposti – Vanitas, Carrying the Milk, Levitation – si compie dunque un percorso a tappe per giungere, proprio come la Santa, all’estasi.
Rilevanza assume poi anche la storia del luogo della performance, ovvero le cucine dell’ex convento di suore clarisse di Gijón, che ha ispirato il lavoro della Abramović: costruito tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, il complesso monastico era stato concepito come una città autosufficiente che ospitava i figli dei minatori del posto rimasti orfani dopo il grave incidente avvenuto in un giacimento del bacino del fiume Caudal. Il monastero ha quindi formato professionalmente, ospitato e dato un pasto a tanti ragazzi, fino all’abbandono della struttura avvenuta negli anni Ottanta. Nei decenni successivi il complesso è stato riqualificato, diventando nel 2007 sede della Laboral Ciudad de la Cultura e ospitando nel 2009 la performance di Marina Abramović.
Quella allestita a Napoli sarà dunque un’esposizione unica nel suo genere sia per i luoghi che la ospitano che per la spettacolare messa in scena che coniuga con grande naturalezza bellezza e riflessione. “Le braccia di Santa Teresa, interpretata da Marina Abramović in queste opere, e l’assenza di suoni nelle sue opere sono un tributo a questo Paese perché rappresentano l’abbraccio e il silenzio, entrambi parti importanti delle nostre vite. La bellezza da cui vogliamo ripartire è rappresentata anche da Napoli, città che più di altre è in grado di esprimere ciò,” ha dichiarato Edoardo Filippo Scarpellini di Vanitas Club.
Marina Abramović si autodefinisce “grandmother of performance art” ovvero “nonna dell’arte performativa” proprio per sottolineare la portata rivoluzionaria del suo modo di intendere la performance artistica che, nel suo caso, prevede spesso la partecipazione del pubblico, sia a livello mentale che fisico. Figlia di partigiani della seconda guerra mondiale e nipote di un patriarca della chiesa ortodossa serba che fu proclamato santo, la vita di questa artista anticonvenzionale si snoda tra 3 città: Belgrado, la sua patria; Amsterdam, città in cui incontra l’artista tedesco Ulay, partner fondamentale nella vita e nell’arte; e New York, luogo della consacrazione, dove tuttora risiede. Ed è proprio al MoMa di New York che nel 2010 si svolge “The artist is present” forse la più conosciuta delle sue performance: durò ben tre mesi, durante i quali l’artista, vestita di un ampio abito, rimase seduta a un tavolo di fronte al quale era stata posta una sedia vuota. Su quella sedia poteva sedersi chiunque, per fissarla negli occhi. Circa 750 persone hanno preso posto di fronte all’artista, lasciandola impassibile, fino a quando non le si è seduto di fronte un uomo dai capelli e dalla barba bianchi. Quell’uomo era Ulay, ventitré anni dopo il loro addio e fu l’unico momento in cui l’artista fu presa dall’emozione.
La visionarietà della Abramović andrà però anche oltre se stessa perché ha già pensato alla sua ultima performance che si intitolerà “GrandMother Of Performance” e che potrà vedere la luce solo il giorno del suo funerale. Ci saranno tre bare, ognuna delle quali verrà inviata in una delle tre città che hanno segnato la sua vita: Belgrado, Amsterdam, New York. Solo una però conterrà il suo corpo. Nessuno saprà mai quale. L’ultimo viaggio restando fedeli a se stessi, sul crinale tra corpo e spirito, materia e anima.
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