Mentre la grande artista giapponese si avvia verso i cento anni di età, la Germania le dedica una sontuosa retrospettiva. Con opere inedite e site specific e una ricerca storica inappuntabile.
Dal pavimento dello storico atrio del Martin-Gropius-Bau si ergono maestosi riccioli rosa. Sembrano enormi code di dinosauri o di animali mitologici, levate in alto, vibranti e minacciose, in contrasto con il loro intenso colore pink, tenero e allegro, reso anche più giocoso da una picchiettatura d’innumerevoli pallini neri.
Si chiama A Bouquet of Love I Saw in the Universe ed è l’installazione di tentacoli gonfiabili appositamente realizzata dalla 92enne Yayoi Kusama (Matsumoto, 1929) per questa generosa, puntuale, prima retrospettiva sul suolo tedesco.
Impressiona per l’inquietante festosità che introduce i temi profondi dell’artista giapponese, un incedere inesorabile verso concetti intricati e intriganti come separazione, moltiplicazione, accumulazione, infinitezza. Complesse astrazioni delegate a tangibili transfert come il pene, le code, gli iconici pois e tanto altro ancora.
VITA E OPERE DEGLI ESORDI DI KUSAMA
La sua è una storia che vale la pena di essere raccontata dall’inizio, cosa che del resto la mostra berlinese sceglie di fare con filologica acribia, non pedante ma necessaria per un’artista inscindibile dalle sue vicende esistenziali e dal contesto storico e culturale in cui ha scelto di immergersi senza riserve. Quasi 3000 metri quadrati di percorso espositivo, 300 opere degli ultimi ottant’anni, gouache su carta, sculture, fashion, documenti, una nuovissima Infinity Mirror Room e molte ricostruzioni di performance e installazioni, dal 1952 al 1983, oltre a materiali inediti che lo staff curatoriale – guidato da Stephanie Rosenthal, direttrice del Gropius Bau – ha reperito nell’archivio personale di Kusama a Tokyo.
Da composizioni astratte inizia la sua produzione con dipinti strutturati in compatti e vivaci campi cromatici, sui quali emergono i primi rarefatti puntini, timida sovrapposizione ancora ignara degli esiti futuri. Ad accompagnarli, però, c’è già la consapevolezza, attestata dalle dichiarazioni di quegli anni, che il punto sia un’estensione allucinatoria del suo corpo nello spazio. Una traccia che diventa la sua magnifica ossessione, accanto alle reiterazioni a grande scala delle iniziali storiche installazioni; ad esempio One Thousand Boats Show (1963), il primo ambiente di Kusama a New York. Vi campeggiava una barca a remi riempita di falli in tessuto bianco poi espansi nel contesto, deliranti repliche di una scena primaria. Quella che lei stessa dichiarava di aver visto spiando il padre con l’amante, su ordine della madre.
YAYOI KUSAMA: OSSESSIONE E IMPEGNO POLITICO
Del resto, se la ripetizione senza fine è, psicologicamente parlando, l’altro nome dell’ossessione, i falli ritorneranno più volte. Nel Floor Show – Phalli’s Field (1965), la prima Infinity Mirror Room di Kusama (ne seguiranno altre più psichedeliche con fruizione in modalità peep show), dove i membri tessili, questa volta a pois e di tessuto rosso e bianco, confidano nelle infinite possibilità di rifrazione e moltiplicazione della superficie specchiante. Condizione che l’artista condivide nella storica foto in cui si ritrae con la tuta rossa, diffusa e incrementata nello spazio, in un selfie ante litteram.
All’epoca, Kusama, con suoi affiorati disturbi mentali, era a New York per restarci vent’anni, dal 1958, stregata dalla ruggente scena artistica dell’epoca. Nella Grande Mela la sua pulsione a proiettarsi nell’ambiente, in uno spazio al di fuori del sé, la porterà ad aderire al mood non solo culturale ma anche politico della città. Si unisce ai movimenti di protesta degli Anni Sessanta e Settanta con una militanza creativa, ben documentata in mostra, che prevedeva orgiastiche ammucchiate in happenning di corpi nudi, segnati dagli immancabili polka dots da lei dipinti sulla pelle dei convenuti. Confermava così la vocazione al dissenso delle sue pratiche performative, spesso associate a robuste denunce politiche negli anni della guerra in Vietnam, quando scriverà anche un’ingenua ma sentita lettera al presidente Nixon per supplicarlo di recedere dal conflitto.
IL RAPPORTO DI KUSAMA CON LUCIO FONTANA E CON L’ITALIA
A metà percorso, grande risonanza è assegnata ai suoi passaggi in Europa e soprattutto in Germania, con due tappe significative: la partecipazione, nel 1960, con l’avanguardia europea alla mostra Monochrome Malerei, un sondaggio internazionale sull’astrazione allo Städtisches Museum di Leverkusen; e, nel 1966, il soggiorno milanese nello studio di Lucio Fontana. Non mancavano certo elementi di consonanza con l’artista italiano, primo a estendere l’opera oltre i confini del quadro, ossessivo nella ricerca di una spazialità immersiva che Kusama, con pari determinazione, apparecchiava per espandersi.
Di tale frequentazione si trovano doviziosi riscontri nella sala con parte delle 1.500 sfere d’argento del Narcissus Garden, finanziato da Fontana. Furono sparse, lo stesso anno, nel prato di fronte al Padiglione Italia durante la Biennale di Venezia, dove si era presentata, non invitata, per venderle al prezzo di un gelato, operazione subito censurata dal comitato organizzatore.
Alla Biennale di Venezia tornerà invece da protagonista nel 1993, prima artista ad avere una mostra personale al padiglione giapponese della 45esima edizione. Per l’occasione riedita ambienti spiazzanti di infinite teorie di pallini neri, questa volta su fondo giallo, labirinti con amplificazioni percettive cui associa nuove morfologie, zucche a pois, ulteriore alter ego, convertito in seguito anche in oggetti d’arredo. Sostituiscono escrescenze e gibbosità di ogni sorta che aveva destinato ai “giardini fallici”, in una produzione pressoché monotematica a partire dal 1977, quando tornata in Giappone si vota a un ritiro cenobitico nell’ospedale psichiatrico di Seiwa.
KUSAMA E L’APPRODO SENILE ALLA PITTURA
Sebbene la mostra si concentri sia sui suoi interessi pluridisciplinari, sia sul tema dell’autorappresentazione, che in Kusama raggiunge sconfinamenti ambigui e insieme sublimi tra corpo e ambiente, la produzione recente che la conclude non risulta aliena.
Commuove l’approdo senile alla pittura, dove i punti ripiegano in tracciati circoscritti, non esondano nello spazio e sono tenuti a bada da sagome e pattern ectoplasmatici. Si aprono a suggestioni originarie, etniche, suggeriscono motivi archetipi, ricordano tessuti wax, recuperano echi ecologisti, si spargono nell’armonia confusa dell’universo, ambizione ultima dell’anima – My Eternal Soul, recita fondatamente il titolo della serie.